TRA IL SENIO ED IL SANTERNO, pubblicazione di carattere sociale, civile e culturale per il territorio del Comune di Solarolo, a salvaguardia della sua identità, delle sue origini, della sua storia e delle sue istituzioni, sostenuto, curato e realizzato da COOP. LIBERTAS SOLAROLO Registrazione della testata: Tribunale di Ravenna, Num. Reg. Stampa 1463, data del Decreto che autorizza la registrazione: 16/02/2021. Sede, Redazione, Amministrazione: Corso Mazzini n.31 - 48027 Solarolo (RA) Proprietario ed Editore: Coop. Libertas Solarolo Soc. Coop. a.r.l. Direttore responsabile: Maurizio Cortesi. Lo stampato viene distribuito gratuitamente ad ogni indirizzo di Solarolo. Ciò è reso possibile poiché il giornale si sostiene economicamente con i soli corrispettivi dei suoi inserzionisti.

sabato 31 luglio 2021

2021-03 - Il fiume “Senio” - una storia solarolese [ di Maria Morini ]

di Maria Morini
Ho letto sul “Corriere di Romagna” che a Faenza l’associazione “Amici del fiume Senio” istituisce la prima edizione del concorso per racconti brevi relativi al Senio. La nostra Coop. Libertas ha un periodico intitolato “Tra Senio e Santerno”.

Non ho intenzione di scrivere racconti, ma a me piace ricordare ciò che quel fiumiciattolo ha rappresentato per la mia infanzia.

Abitavo allora in via Buratella al n. 6, dove sono nata (scusate se uso il passato prossimo) il 17-10- 1927. Nella nostra famiglia ero la maggiore di tre bambini. Poco più avanti sulla strada c’erano i Minardi. Tra figli naturali e quelli affidati il gruppo era numeroso. Ce n’erano poi alcuni altri che spesso si accodavano per arrivare, dopo circa un chilometro, al fiume, meta delle nostre belle giornate estive.

Dopo la mietitura e lo sfalcio del fieno, lo zio Gildo era completamente libero nelle ore del pomeriggio e, invece di riposare a letto o all’ombra di un albero, come gli altri, preferiva fare un bagno nel fiume e una buona dormita sotto le canne palustri. Dopo le solite raccomandazioni di Gildo il gruppo era libero di correre e sguazzare dove c’era acqua.

Quelle ore desiderate erano la nostra vacanza, il nostro mare (quello vero nessuno di noi lo aveva mai visto). Il fiume, che è ancora ben presente nella mia memoria, era molto diverso da quello che ho visto per l’ultima volta circa dieci anni fa. In fondo alla strada correva da nord a sud la riva, un alto argine ricoperto di vegetazione erbacea, mantenuta sempre ben rasata dagli uomini che non possedevano campi, ma allevavano magari un cavallo, un asino, qualche pecora o capra che dovevavo essere alimentati. Uno stretto sentiero trasversale permetteva di salire a piedi (al massimo spingendo una carriola). Dalla cima un altro sentiero raggiungeva la golena, uno spiazzo abbastanza ampio (chiamato da noi il “saletto”) ricoperto da una fine sabbia molto chiara e da gruppi sparsi di canne palustri. Di qui si scendeva fino all’acqua che solo in qualche punto poteva avere la profondità di 30-40 cm. Di corsa la raggiungevamo senza bisogno di spogliarci, perché non avevamo indosso altro che le mutande. Non si nuotava certo, ma si sguazzava e  ci si spruzzava a vicenda tra gridolini e risate. Più a sud si raggiungeva una specie di laghetto che ogni tanto ospitava le lavandaie. Qui parte della golena era crollata, forse a causa delle piene, formando una specie di muro verticale sabbioso. Quella parete era traforata da decine di piccole tane in file parallele, dette “nidi di rondini”, anche se non abbiamo mai visto uccelli entrare o uscire. Dopo la siesta lo zio Gildo veniva da noi a farci divertire tentando di prendere con le mani qualche pesciolino che guizzava nelle buche più profonde. Continuavano le raccomandazioni di non spostarci più a nord, perché in un gorgo profondo c’era una pericolosa lontra che ci avrebbe mangiati. Anche i canneti erano proibiti, perché potevano nascondere i banditi. Noi ragazzi non abbiamo mai visto nessun adulto oltre lo zio e un personaggio particolare, quasi sempre presente, considerato il custode del fiume. 

Ricordo solo il suo soprannome: lo  chiamavano tutti Baraca. Faceva il cavatore di sabbia da vendere. La portava con la carriola sulla golena e la ripuliva dagli sterpi gettandola con una pala contro una specie di grattugia. Quando non usava i suoi strumenti, li teneva in uno scavo della golena circondato da canne, la cui cima era legata a mazzo e formava una piccola cupola sopra “la buca di Baraca”.

Da grande sentii dire che quello era anche il rifugio di coppie clandestine. Noi ragazzi non vedemmo mai nessuno.

Tutto nel fiume era bello, da rimpiangere d’inverno durante il freddo e i mesi di scuola. Vicino all’acqua, in qualche punto, crescevano alti cespugli di topinambur che si ornavano di grandi margherite gialle. Una volta volli portarne a casa un mazzo e cominciai a strapparne alcuni rami (tanto non avevano proprietario!).

Poco lontanto c’era Baraca che interruppe il lavoro e avvicinò, dicendomi serio che non si dovevavno raccogliere quei fiori, perché appartenevano alla ragazza morta annegata nel fiume qualche tempo prima.

L’aveva trovata lui in quel punto, dove era stata trascinata a valle dalla corrente, dopo che era caduta dalla passerella.

Quel ponticello che noi chiamavamo “la trave” era un lungo asse che permetteva di attraversare il fiume a chi si recava a Faenza, senza bisogno di passare per il ponte di Felisio. La ragazza era in compagnia del fidanzato e, nonostante la piena, erano saliti sulla “trave”. Lei era caduta. Qualche maligno suppose che lui l’avesse spinta. Il corpo dunque era rimasto impigliato proprio nel mio cespuglio di topinambur. Quei fiori erano suoi.

Baraca, raccontando commosso l’episodio, descriveva nei più minuti particolari quel corpo. A me rimasero impressi gli occhi spalancati e la bocca piena di sabbia su cui brulicavano le mosche.

A lungo quell’immagine turbò i miei sonni di bambina e nemmeno il tempo la cancellò. Anzi si accentuò quando a scuola imparai a memoria la poesia “La voce” di G. Pascoli. …

Voce d’un’accorsa anelante
che ai poveri labbri si tocca
per dir tante cose e poi tante;
ma piena di terra ha la bocca:

... Quando rivivo la mia infanzia questo ricordo in particolare non manca mai.

[ M. M. ]