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Mirko Banzola
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In memoria del professor Giovanni Pini
Più di un secolo fa, il 9 febbraio del 1896, in occasione dell’anniversario dell’insegnamento del suo maestro Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli pubblicò su Il Resto del Carlino un articolo dal titolo “Ricordi di un vecchio scolaro”, che rievocava il primo incontro con il grande poeta, professore all’Università di Bologna. Quando mi hanno chiesto di scrivere un mio ricordo del prof. Giovanni Pini, scomparso il 7 dicembre scorso all’età di 91 anni, ho subito pensato che non ero certo la persona più adatta a ricordarlo: io non sono mai stato suo “scolaro”, perché sono arrivato al Liceo di Faenza nel 1989, quando il professore era da poco andato in pensione.
Eppure, ripensandoci, devo riconoscere che la sua figura è stata un punto di riferimento costante nel corso dei miei studi, prima al Liceo e poi all’Università. La mia insegnante di lettere del ginnasio, che di Pini era grande estimatrice, ci parlava spesso di lui in toni entusiastici:
“E’ un uomo straordinario!” …
“Ha tradotto opere greche mai tradotte prima in Italiano” …
“E’ uno dei pochi che sa tradurre il greco antico a prima vista” …
“Potremmo chiamarlo per una lezione sull’Odissea, ma è troppo umile e non verrebbe mai”…
Ad essere sincero, devo confessare che in quegli anni faticosi, mentre mandavamo a memoria i paradigmi dei verbi greci e ci arrovellavamo sulle versioni latine, la figura di Giovanni Pini ha accompagnato me e i miei compagni di classe, oscillanti fra la delusione di non averlo avuto come insegnante e il “sacro terrore” che incutevano le leggende metropolitane su di lui:
“Mi raccomando, non dite mai “Giasòne”, si dice “Giàsone”: se ci fosse Pini all’esame, potrebbe bocciarvi per una cosa del genere!”…
“Quando c’era Pini al triennio la maggior parte degli alunni aveva l’insufficienza in latino e greco… ”.
E così via.
Il ricordo più nitido risale al terzo anno delle superiori: la prof. di latino ci lesse ad alta voce un passo della lettera che Pini aveva scritto al momento del pensionamento, una sorta di testamento spirituale rivolto agli alunni e ai colleghi.
Le brillavano gli occhi e le vibrava la voce: era un invito a coltivare la conoscenza dei testi in lingua originale come strumento insostituibile di indagine,
un invito ad andare alla radice delle cose, a confrontarsi direttamente con le fonti, senza accontentarsi del “sentito dire”.
Insomma, quella di Giovanni Pini al Liceo di Faenza è stata una presenza insostituibile anche per una generazione come la mia che non l’ha mai avuto come insegnante. Pini, del resto, non era solo un’autorità in fatto di latino e greco: Pini “era” il latino e il greco.
Ho conosciuto di persona Giovanni Pini solo in seguito: ho avuto l’occasione di incontrarlo per un’intervista per il settimanale Il Piccolo, quando, negli anni dell’università, facevo il corrispondente per la cronaca locale da Solarolo.
Mi avevano chiesto di dedicare ogni due settimane un articolo ad una persona importante del paese. E fu così che presi il coraggio a due mani e decisi di intervistarlo, pur con profondo timore reverenziale. In verità spesso lo avevo incrociato per strada, mentre si spostava in bicicletta tra Solarolo e Felisio, dove risiedeva da quando era andato in pensione. Ma non avevo mai osato fermarlo.
La conoscenza diretta fu una vera sorpresa: l’affabilità e la schiettezza del professore, insieme ad una intelligenza vivissima e a una competenza non comune, erano la cifra umana che lo rendevano “un mito”, come lo definirebbero oggi i ragazzi. E questo spiega la stima che si era guadagnato da parte di quanti avevano avuto la fortuna di conoscerlo (anche di quelli che non brillavano nelle sue materie).
Mi raccontò degli anni lontani della giovinezza e di quelli terribili della guerra, quando, rifugiato nella sua casa nelle campagne di Solarolo, assistette prima all’uccisione del soldato tedesco e poi alla rappresaglia dell’eccidio di via Felisio.
Mi raccontò poi della passione per l’insegnamento legata alla facilità, per lui, dello studio delle lingue antiche; del successivo abbandono della scuola, quando l’impegno era divenuto troppo gravoso, in nome dell’altra grande passione della sua vita, la pittura; e degli anni dedicati alla traduzione dal greco degli Stròmati di Clemente Alessandrino, di cui non esisteva prima alcuna traduzione italiana. E nel racconto si affacciavano ogni tanto qua e là, quasi celati per un senso di discrezione, gli affetti più cari, la moglie, i figli, le nipoti allora bambine.
Da quel giorno, quando lo incontravo (di solito all’uscita dalla messa domenicale), mi salutava con calore e si informava della situazione della scuola, degli studenti e del lavoro degli insegnanti (nel frattempo ero diventato anch’io professore di latino e greco). Poi la vita mi ha portato altrove e negli ultimi anni non ho avuto più contatti con lui.
Ora che se ne è andato, mi resta il rimpianto di non avere avuto più tempo per godere della straordinaria ricchezza da cui ti sentivi pervaso dopo due chiacchiere con lui o anche solo per porgergli le domande giuste dopo aver riflettuto sulle cose che ti aveva detto.
C’è una parola latina quasi intraducibile in italiano, che mi si presenta alla mente quando penso al professor Pini: “humànitas”. E’ una parola il cui significato è difficile da spiegare agli studenti: significa “senso di umanità”, “attenzione ai propri simili”, ma anche “cultura”, “ponderazione”, “capacità di discernimento” e tanto altro. Una parola che esprime “un orizzonte d’attesa”, più che un semplice concetto.
Ecco: se c’è un uomo che per me ha incarnato l’ideale dell’humànitas, se c’è una persona che può essere indicato quale sintesi perfetta di quell’orizzonte, questo è stato, o meglio, questo è Giovanni Pini.
Grazie, professore! Sarebbe per me un grandissimo onore, se potesse accettarmi come uno dei suoi scolari, quello dell’ultimo banco, che ha sempre desiderato seguire le sue lezioni, ma non c’è mai riuscito perché la vita l’ha portato altrove.