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giovedì 1 aprile 2021

2021-02 - Ricordando un “vecchio lavoro” - una storia solarolese

di Maria Morini
Una storia solarolese
"il soffitto della chiesa di Gaiano"

Mi è stato chiesto di descrivere, per il simpatico giornalino della Coop.Libertas, il significato del soffitto della chiesa di Gaiano. Ho accettato, nonostante la difficoltà dovuta in gran parte alla mia età (93 anni), alla consapevolezza di parlare di un’ “opera” priva “di senso comune” e al fatto che sono costretta a fare riferimento a mie vicende personali, che non interessano a nessuno.

Interno Chiesa Gaiano (foto R.B.)

Sono nata il 17 ottobre 1927 in una famiglia di “coltivatori diretti” che, pur essendo a volte anche costituita da nove persone, doveva vivere sul reddito di tre ettari di terra (in via Buratella) ereditati dalla nonna paterna (faentina) nell’anno 1900. I miei genitori, Aldo e Emma, a causa del mio aspetto fisico e caratteriale, inadatto al lavoro dei campi mi permisero di continuare gli studi, che amavo, anche dopo le scuole elementari frequentate prima a Gaiano poi a Solarolo. La scelta del Liceo-ginnasio E.Torricelli di Faenza fu dovuta al fatto che in città abitava la sorella del mio babbo che mi avrebbe ospitato durante la settimana. Inoltre si trattava dell’unica scuola pubblica di carattere letterario e non matematico-scien
tifico. Dopo cinque anni ottenni la licenza ginnasiale, anche se l’anno scolastico 1943-44 non era ancora concluso. Me ne ritornai a casa in bicicletta verso la fine di maggio, dopo il primo bombardamento di Faenza. Da quel giorno, per molto tempo, di scuola non si parlò più. Lo sanno i miei coetanei (o quasi). Avevo allora sedici anni. Non è qui il caso di raccontare le vicende di quella guerra, di quel periodo terribile che terminò il 25 aprile 1945. 

(foto R.B.)

Non terminarono però i disagi che aveva creato.

Per la mia famiglia significò la morte di mio cugino Taddeo (14 anni) trafitto da una scheggia di granata e più tardi da quella di suo padre Ermenegildo per lo scoppio di una mina. La famiglia si era ridotta con il dolore e i disagi di cui è inutile parlare qui. Avevamo abbandonato, costretti dai tedeschi, la nostra casa all’improvviso, senza sapere dove andare e come. Su un “birroccio” trainato da due mucche raggiungemmo il paese, ospitati da famiglie generose, poi decidemmo di allontanarci dal fronte e arrivammo con lo stesso mezzo, forniti di un materasso e una coperta ciascuno e con un sacchetto di fagioli a Sesto Imolese.

Babbo conosceva una numerosa famiglia di contadini che ci ospitò per alcuni mesi con grande generosità. Finita la guerra arrivammo a piedi a Barbiano, dove ci fermammo a casa dei miei nonni materni. La nostra casa non esisteva più. Furono costruite con i ruderi due stanzette che ci permisero di riordinare un po’ il terreno sconvolto dalle bombe per coltivare qualche pianta e allevare galline e conigli.
Primo settore (foto R.B.)

Di scuola, naturalmente non si parlò più. Mia cugina Mina scelse il “taglio e cucito” riuscendoci bene. Io facevo un po’ di tutto (ho filato, tessuto, cucito...).

Inutile trattare qui i disagi di quel periodo, quando c’era poco da mangiare, non avevamo biciclette, ma nemmeno abiti, scarpe, stoviglie da cucina. Cercavamo di tutto tra le macerie della casa, perfino le pagine dei libri che mi ricordavano i vecchi compiti, gli insegnanti, i compagni (alcuni dei quali avrei rivisto dopo anni). Ritrovai invece le amiche della mia infanzia, quelle che incontravo almeno la domenica, che furono per me un grande sollievo. La parrocchia era il punto di ritrovo più comune, dove si poteva giocare, chiacchierare e persino...recitare. Fin dal 1942 era parroco di Gaiano mons. don Giulio Foschini.
Secondo settore (foto R.B.)

Anche lui dovette pensare alla riparazione di alcuni danni subiti dalla chiesa.

Si arrivò così al 1952. Fino ad allora il tetto dell’edificio era retto da una struttura a capriate, come era certamente fin dalle origini (di cui non si conosce la data) e com’è ancora oggi quella di Casanola. Don Foschini, dovendo rifare il coperto, in gran parte danneggiato, decise di rinforzarlo con travi in cemento armato ricoperte poi da una intelaiatura di legno di castagno disposta a riquadri, cassettoni regolari, della misura di cm 75x75. Ne sarebbero derivati 144. Sarebbe poi stato necessario ricoprirli.

La decisione era suggerita non solo da motivi estetici, ma dalla necessità (a parere del parroco) di riscaldare un poco l’ambiente nei mesi invernali. Dovendo scegliere il materiale per i pannelli, che doveva essere leggero, al legno compensato, facilmente deformabile, si preferì la faesite (cartone compresso) facile da mettere in opera e di costo non eccessivo.

Terzo settore (foto R.B.)


Tuttavia il colore era considerato troppo scuro e insignificante. Non so come venisse al parroco l’idea di decorare i riquadri con motivi geometrici o floreali a colori. Il lavoro mi fu imposto e non potei rifiutare anche se tentai di farlo, con insistenza, consapevole com’ero della mia assoluta inesperienza e inettitudine. L’idea era venuta al parroco perché sapeva che amavo il disegno e avevo già progettato il bassorilievo della porticina del Tabernacolo e due angioletti d’argento che reggono la corona sopra l’immagine della bella Madonna seicentesca. Ripeto che non potei rifiutare, quindi devo tornare a parlare delle mie vicende personali.

Ho detto che nel 1944 avevo conseguito la licenza ginnasiale, un titolo di studio che non offre nessuna possibilità di impiego. Questo mi ripeteva tante volte don Foschini, incoraggiandomi a continuare gli studi privatamente, dal momento che non avevo nemmeno la bicicletta per andare a Faenza. Personalmente mi avrebbe fornito tanti libri, anche molto vecchi, che possedeva e che erano necessari per lo studio della letteratura italiana, del latino e del greco antico.

Si sentiva in grado anche di rivedere i miei esercizi scritti e di ascoltare la mia preparazione orale. Era stato iscritto all’università, anche se ora non la frequentava più.
Decisi di accettare e, anno per anno, sostenendo gli esami privatamente, nel 1948 ottenni la licenza liceale che mi permise di iscrivermi alla facoltà di lettere classiche presso l’università di Bologna.

Quando, nel 1952 si parlò del soffitto della chiesa, avevo appena sostenuto l’esame scritto di latino, superandolo, anche se era considerato uno degli ostacoli più gravi della facoltà. Per questo non potei rifiutare il lavoro proposto anche se ero proprio convinta della mia incapacità, quindi, anche se malvolentieri, mi misi all’opera.

Per prima cosa eseguii degli schizzi dietro suggerimento del “committente” poi li ingrandii su fogli di carta da pacchi e li riportai, con carta copiativa, sui pannelli che il falegname mi forniva direttamente a casa mia. Per colorarli mi furono consigliati, dal commesso di un negozio di Faenza, dei colori a olio, che non avevo mai usato. L’idea dei “rosoni” tutti uguali fu scartata da don Foschini, che preferì rappresentare dei simboli religiosi che, per forma e dimensioni, risultassero abbastanza armonizzati.

Spulciando vecchi testi sacri o lavorando di fantasia “inventammo” una specie di storia della salvezza, dalla creazione del mondo ai giorni nostri.

Si passò attraverso simboli religiosi, ad esempio i dieci versetti del Padre nostro, le quattordici “stazioni” della Via Crucis, i misteri del Santo Rosario, le principali feste religiose e vari altri argomenti per 144 motivi diversi.

Da parte mia cercavo altre idee, inventavo forme diverse, anche se non ero mai convinta di quello che facevo. Non lo sono nemmeno oggi, dopo tanto tempo. Tuttavia “la cosa” è là e qualcuno forse è curioso di capire quel “lavoro” che non assomiglia a nessun altro, se non al soffitto di un’altra chiesa di Faenza, quella di S. Giuseppe Artigiano, nata, sempre per idea di Don Foschini, per opera di mani più abili e più esperte delle mie: Dalmonte, uno scultore-ceramista di professione.

Non è possibile descrivere qui tutti i pannelli, però mi sembra necessario spiegare la presenza e il significato degli ultimi, che sostituiscono le “firme” del committente (Foschini) e dell’autrice (Morini).

                             

Sono gli stemmi cosiddetti “araldici” (non certo nobili), reperibili, con quelli dei più diffusi cognomi romagnoli, in un antico volume della biblioteca comunale di Faenza. Per ultimi compaiono l’anno di esecuzione (1952) e lo stemma del comune di Solarolo a cui la parrocchia di Gaiano appartiene.

Se qualcuno fosse curioso di sapere quanto tempo ha richiesto l’esecuzione del lavoro, sono in grado dirlo: “persi tempo” per circa tre mesi, pur continuando a studiare.

[ M.M.]